Vi è un’arte che non si apprende con la mente né con la forza delle braccia. Un’arte che non conosce sforzo, né esitazione, e che, nella sua essenza più pura, non ha scopo alcuno. Lo Zen e il tiro con l’arco di Eugen Herrigel non è un libro da leggere, ma un sentiero da percorrere con passo leggero, con il cuore sgombro da desideri e la mente libera da ogni pensiero. È un viaggio attraverso il quale il discepolo scopre che non è lui a tendere l’arco, ma è l’arco a tendere lui; non è lui a scoccare la freccia, ma è la freccia a liberarsi nel momento giusto, quando l’intenzione si è dissolta nell’infinito.
Il tiro con l’arco non è mera abilità tecnica. Non è la mano che guida la corda né l’occhio che scruta il bersaglio. È un’arte che nasce dal vuoto, dal nulla, come il vento che muove le foglie senza un fine. Il Maestro Kenzo Awa, guida dell’autore, lo insegna senza parole superflue, senza istruzioni dettagliate, ma con il solo esempio, con la pazienza infinita di chi attende il fiorire di un ciliegio. Herrigel, straniero in terra giapponese, intraprende un cammino che all’inizio gli appare oscuro, fatto di ripetizioni senza spiegazioni, di tentativi frustranti, di colpi che non colpiscono nulla. Ma il vero bersaglio non è fuori di sé, bensì dentro. E quando il praticante si svuota, quando lascia andare se stesso, allora l’arco si tende da solo e la freccia trova la sua via nel cielo.
La lezione più grande di questo libro non è nel tiro con l’arco, ma nella vita stessa. Perché ciò che accade nell’arte dell’arco accade in ogni cosa: nella spada che si muove senza il pensiero del guerriero, nel pennello che traccia il segno prima ancora che la mente lo concepisca, nel respiro che fluisce senza sforzo. Il vero Maestro non impone, non dirige, non corregge: egli mostra la via, e il discepolo, con pazienza e disciplina, vi cammina finché il passo diventa leggero come l’ombra della luna sull’acqua.
Vi è una profondità silenziosa in ogni insegnamento che il Maestro Awa impartisce. Egli non corregge gli errori di Herrigel con la severità della critica, ma con la gentilezza dell’attesa. Ogni colpo mancato non è un fallimento, ma un passo nel percorso della comprensione. L’arte non si raggiunge con la volontà, né si possiede con il desiderio: essa si manifesta solo quando il praticante diventa tutt’uno con essa. Il segreto, se mai ve n’è uno, è nel lasciar accadere, nell’essere presente senza voler dominare il momento. Herrigel lotta, si dibatte contro la sua stessa impazienza, ma il Maestro sa che solo l’accettazione della propria imperfezione porterà alla perfezione dell’arte.
Il tempo è maestro tanto quanto il dojo. Giorno dopo giorno, la tensione dell’aspettativa cede il posto alla fluidità dell’azione spontanea. L’arco non è più un oggetto estraneo nelle mani del praticante, ma una sua estensione naturale. La freccia non è più un proiettile da controllare, ma una parte di un flusso che scorre senza attrito. Solo quando l’arciere dimentica di essere arciere, il tiro diventa perfetto.
Lo Zen e il tiro con l’arco non è un libro per chi cerca il successo, la vittoria, il dominio sull’arte. È un libro per chi è disposto a perdere sé stesso, per chi è pronto a dimenticare l’Io e a lasciare che sia il tutto a manifestarsi attraverso di lui. Come il Maestro dice a Herrigel, «Non sei tu a scoccare la freccia. È il tiro che si compie da solo». E solo quando il tiro diventa non-tiro, quando l’arco, la freccia e l’arciere si fondono in un unico respiro, allora la vera maestria è raggiunta.
Eppure, la lezione più preziosa di questo libro risiede forse in ciò che non viene detto. Nei silenzi tra un colpo e l’altro, negli sguardi scambiati tra Maestro e allievo, nella quieta accettazione che la perfezione non si trova in ciò che è visibile, ma in ciò che è compreso senza bisogno di parole. Il vero insegnamento dello Zen non è nella tecnica, né nella conoscenza, ma nella consapevolezza che ogni atto, se eseguito con totale presenza, è già completo in sé stesso.