Questa storia appartiene a Frammenti di Diario, una raccolta di narrazioni in cui personaggi immaginari affidano alle pagine dei loro taccuini ansie, desideri e sfide quotidiane. Ogni frammento nasce dalla fantasia dell’autore, non ritrae fatti o persone reali, e ha lo scopo di accendere domande, emozioni e confronto all’interno della community di Mentalità Amplificata.
Frammenti dal taccuino di Marco, che ogni giovedì sera inseguiva un’ora di calcetto e ha finito per perdere il respiro.
12 settembre – ore 23:08
Da anni firmo, giorno dopo giorno, lo stesso contratto con la nostalgia: stamattina a mezzogiorno l’ho rifirmato ancora, quando l’odore dell’erba sintetica mi ha attraversato la memoria come un colpo di vento caldo. Stasera avrei dovuto essere su quel campetto spelacchiato, a respirare polvere e sarcasmo fra amici, sentire le ginocchia lamentarsi e il cuore ringraziare. Invece sono qui, seduto sul bordo del letto, con la luce del bagno accesa come un interrogatorio lasciato in sospeso. Alice è uscita un istante fa: «Torno subito» ha detto, voce piatta, occhi che bruciavano come braci sotto la cenere.
La porta ha sbattuto piano, ma il colpo è rimbalzato dentro di me. Non so se tornerà più arrabbiata o più triste; in entrambi i casi dovrò rammendare l’aria, ricucire un tessuto che sfugge alle dita ogni volta che provo a tendere la mano. Il mistero, la colpa, è minuscola e gigantesca insieme: le ho detto del calcetto troppo tardi. «Potevi dirmelo prima, mi sono organizzata con la cena». Le sue parole erano pentole che sbattono, ma senza rumore. Mi ha voltato le spalle e la fune invisibile ha già stretto il torace: mi sento tirare indietro da un laccio che non ho firmato, ma che porto al collo come se fosse il prezzo da pagare per ogni respiro che odora di libertà altrui.
Scrivo a te, caro diario, perché le parole non hanno testimoni e non tradiscono. Scrivo per ricordare che, in un angolo della mente, il pallone rotola ancora, e con lui i sogni semplici di un giovedì qualsiasi. Forse domani dimenticherò questa stretta, forse domani dirò che esagero. Ma stasera la nostalgia mi ha già chiesto gli interessi, e sto firmando cambiali con il sangue del mio silenzio.
19 settembre – ore 00:41
I ragazzi mi hanno battezzato “centrocampista fantasma” nel gruppo WhatsApp, un titolo che dovrebbe far ridere e invece mi allunga addosso un lenzuolo di assenza. Mentre compare l’emoji del fantasmino accanto al mio nome, la risata che digito è un trucco—dietro i pollici avverto il morso di chi sa di essere lì e non esserci davvero.
Non trovo il coraggio di silenziare la chat: ogni messaggio che vibra è un richiamo al campo, ma per Alice è un deformarsi del tempo condiviso. «Le notifiche mi tolgono un pezzo di te», ripete, e l’icona verde diventa il lampeggiante di un’ambulanza che passa nella nostra stanza. Allora giro il telefono a faccia in giù, spengo la vibrazione, declasso il bisogno di rispondere a furtiva ginnastica dei pollici sotto il tavolo. Mi sorprendo a controllare lo schermo di nascosto, schiena curva, respiro corto—un adolescente beccato a copiare, soltanto che la punizione me la infliggo da solo.
Il chiasmo è perfetto: io mi trasformo in spettro per sfuggire alla sua gelosia, mentre i compagni usano il nome di spettro per ricordarmi che mi dissolvo proprio lì dove vorrei essere in carne e fiato. Ogni “ping” soffocato è una campanella di scuola: segna il cambio d’ora, ma io resto inchiodato al banco dell’autocensura.
3 ottobre – ore 22:17
Sono uscito lo stesso, con la testa che batteva come un tamburo pavloviano a ogni passo verso il campetto. Il neon del quartiere disegnava ombre lunghe ma la rete di recinzione brillava come una promessa. Quando la suola ha toccato l’erba sintetica ho sentito il diaframma aprirsi: un colpo secco, puro, l’aria che ruzzola nei polmoni fino a scacciare la polvere. Ho corso, ho gridato un «uomo!» troppo forte, ho sbagliato un rigore e ho riso. Per sessanta minuti sono stato voce, fiato, salto: il corpo ricordava verbi che la mente aveva archiviato.
Il rientro è stato un cambio di stagione istantaneo: dal sudore estivo alla brina invernale del corridoio. La porta dell’appartamento era socchiusa, come una bocca che sta per fare una domanda di cui conosce già la risposta. Alice era sul divano, la TV accesa ma muta, le mani intrecciate come corde tese. Lo sguardo smalto crepato. Ha lasciato cadere una frase che non era domanda né accusa, era incisione su pietra: «Divertente, vero, correre dietro a un pallone mentre io corro dietro a tutto il resto?». Lì per lì ho frugato tra le parole, cercando quella che aprisse un varco, ma la lingua mi si è incollata al palato. Avrei voluto dirle che “tutto il resto” siamo noi, non solo lei, che il campo non mi sottrae a lei, mi restituisce a me stesso per tornare pieno. Ma ho scelto la ritirata.
Ho svuotato il silenzio apparecchiando una tisana: acqua che bolliva piano, bustina di camomilla che galleggiava come un’ancora. Le ho porto la tazza, ma il vapore è rimasto orfano, nessuna mano l’ha accolto. Lei è rimasta lì, immobile, e il liquido ha perso calore insieme all’aria della stanza. Sembrava il replay di un gol annullato: il pubblico che trattiene il fiato, la rete che resta immobile, il tabellone che non cambia punteggio. È così che il cuore si scopre fuori gioco appena dopo aver esultato.
24 ottobre – ore 18:30
Rientrando prima, speravo che il mio gesto di aiuto con la spesa sarebbe stato accolto come un segno di pace, un tentativo di riavvicinamento. Invece la lista si è rivelata un foglio d’esame pieno di trappole. «Hai preso il detersivo giusto?», ha chiesto senza alzare lo sguardo. Dietro quella marca precisa sentivo la mina nascosta dell’errore. «Quanti minuti hai aspettato alla cassa?», altra barriera, altra torretta di controllo.
Più che domande erano dogane: io contrabbandiere di normalità, lei guardia di frontiera in cerca della minima infrazione. Ogni risposta partiva con il timbro dell’ansia e pagava dazio di dettagli inutili pur di attraversare il confine della sua approvazione. Mi sono ritrovato a giustificare persino la piega dello scontrino, come se potesse incriminarmi.
In quel dialogo interrogativo la cucina si è contratta, i muri si sono avvicinati di un palmo. Non servono sbarre quando ogni sillaba pesa come ferro fuso e la pelle si stringe attorno al petto in un’armatura che nessuno ha forgiato, ma che indosso lo stesso.
7 novembre – ore 23:55
Oggi ho cancellato il mio nome dal torneo aziendale prima ancora di iscrivermi. Il portale interno lampeggiava con la casella vuota in attesa: bastava confermare per tornare ad essere “Marco, centrocampo”, un’etichetta semplice, piena di erba tagliata e urla di corridoi, ma il dito ha esitato come sull’innesco di un ordigno.
Ho digitato il mio cognome, l’ho visto materializzarsi in nero sul bianco dello schermo: cinque lettere cariche di adolescenze, di campi polverosi, di ginocchia sbucciate. Poi, ho premuto backspace. Il vuoto emerso è stato più rumoroso di un fischio d’inizio: un boato muto che ha fatto vibrare lo stomaco. Ho immaginato il tabellone luminoso che segna 0‑0 prima ancora che le squadre entrino in campo: partita abortita, giocatori che restano nello spogliatoio a fissare scarpe lucide e inutili.
Alice non lo saprà mai – mi ripeto – eppure la sento dietro di me come ombra radente al pavimento, mani leggere ma definitive sulle mie spalle, a guidare movimenti che chiamo “scelte”. Non ho bisogno del suo sguardo reale: ne porto uno incastonato sotto la pelle, un faro che interroga ogni tregua di libertà. Con quel faro addosso, il coraggio si impasta di sabbia.
Ho mentito a te, caro diario, e alla mia voce interiore: «Tanto non ho più allenamento», mi sono sussurrato. Ma so che la ruggine nelle gambe non fa così tanta paura; quel che temo è la ruggine negli occhi di Alice se mi vedesse di nuovo brillare dove lei non è. La verità è chirurgica: non mancano fiato o tecnica – manca permesso. Ho smesso di correre non perché sia stanco, ma perché il fischio di partenza si alza solo se qualcun altro non copre la bocca dell’arbitro.
28 novembre – ore 01:12
Abbiamo litigato per il pranzo di Natale con i miei. Il tavolo non è ancora apparecchiato e già sembra una trincea. «Sempre la tua famiglia» ha sibilato Alice, «mai la nostra». Quelle due sillabe finali —no‑stra— sono rimbalzate nell’aria come pietre nello stagno e mi sono sembrate un martello su un vetro già incrinato. Ho provato a dirle che la nostra famiglia siamo noi due, un noi che dovrebbe allargarsi invece di rimpicciolirsi, ma la frase le è suonata come una bestemmia sussurrata nella navata a mezzanotte. Allora ha alzato la posta con la domanda‑capestro: «Preferisci loro o me?». È un bivio truccato: qualunque strada scelga taglia via una parte di carne viva. Rispondere significa amputare; tacere significa sanguinare più a lungo.
Mentre la bocca restava secca, la mente ha fatto un giro di campo: mi sono visto bambino, pallone tra i piedi, il tocco rotondo di cuoio che non morde e non impone angoli. Il pallone vive di rimbalzi, chiede solo spazio per rotolare. Qui, invece, ogni parola è un coltello che cerca un appoggio per incidere: il ricordo di mia madre che prepara i cappelletti, la necessità di proteggere il sorriso di Alice, la mia identità che scivola su ghiaccio sottile. Ho pensato alla palla rotonda che accarezza l’aria e torna docile, e mi sono accorto che in questa cucina le emozioni non rimbalzano: si conficcano, restano lì come lame lasciate sul tagliere.
15 dicembre – ore 20:46
Il mister ha scritto: «Ci manchi, capitano». Il display si è acceso come un faro nel parcheggio semibuio, e all’improvviso l’abitacolo si è riempito di voci: il coro nello spogliatoio, il clangore dei tacchetti sul cemento, quel “dai che è nostra” urlato a pieni polmoni. Mi si è fermato il fiato, poi le lacrime sono scivolate in silenzio lungo il volante. Non so se per l’abbraccio dolce di quelle parole o per la resa che confessano: qualcuno mi reclama, e io non ci sono più.
La memoria ha premuto play su un replay fulmineo: la scarpa che colpisce il pallone—“toc”, suono pulito come vetro che tintinna—il rimbalzo che giustifica l’esistenza di ogni respiro; l’errore che vola oltre la traversa e la risata immediata che lava la vergogna trasformandola in complicità. Adesso anche la risata deve presentare il passaporto alla dogana dell’approvazione: senza timbro resta bloccata in gola, tremore impigliato fra trachea e cuore.
Resto nel parcheggio, motore spento, i tergicristalli immobili come braccia conserte. Vorrei rispondere al mister che non manco soltanto al campo: manco a me stesso, e temo che, se un giorno tornassi, troverei soltanto impronte sbiadite dove correvo. Le dita scorrono sulla tastiera del telefono, ma il messaggio resta lì, sospeso insieme alla spia della benzina quasi finita.
31 dicembre – ore 23:57
Lei scandisce l’attesa a voce bassa, occhi puntati sul mio profilo più che sulle lancette: sembra stia tenendo il conto non dell’anno che finisce, ma dei miei millimetri di distanza. Io, nel frattempo, passo in rassegna le porte che ho sprangato dall’interno: una per ogni sogno rimandato, una per ogni invito declinato, finché la casa è diventata un castello senza ponti levatoi. Mi illudo che la fortezza mi protegga, ma stasera realizzo che le mura odorano di celle umide.
Quando l’orologio segna lo zero universale, le nostre labbra si sfiorano per il bacio di rito: un timbro su un documento, più che un’esplosione di gioia. Fuori, il quartiere scoppia di colori; qui dentro il boato arriva ovattato, come fuochi d’artificio visti da dietro una vetrata spessa. Sento il petto vibrare di un’eco lontana, ma il cielo resta fuori portata, e ogni scintilla si spegne prima di riflettersi nei nostri occhi.
6 gennaio – ore 11:04
Prima di uscire per un caffè con Luca ho lasciato il telefono sul tavolo, a schermo acceso, come si depone una pistola scarica sul banco del duello prima ancora che echeggi il passo dell’avversario. Ho detto: «Così sai dove sono», cercando di far vibrare la frase di premura, ma mi è uscita dal petto con il timbro opaco della resa.
Mentre infilavo la giacca, lo sguardo mi è scivolato sul riflesso del vetro: un uomo piegato in due gradi di servitù, capo chino, spalle già incurvate al colpo che non è ancora arrivato. Ho capito che non stavo offrendo fiducia, stavo consegnando la prova che ogni mio movimento era stato mappato, geotaggato, disinnescato.
Ho bussato dentro di me: davvero basta la luce di un display per farmi prigioniero? Se il telefono è la catena, perché lo appoggio io stesso sul tavolo? Non ero gentile, caro diario, ero addestrato: a rinunciare in anticipo, a togliere ossigeno ai sospetti prima che potessero accendersi. Una libertà concessa con ricevuta firmata non è libertà; è permesso orario da carcere con vista sulle stesse mura.
13 gennaio – ore 21:18
Alice ha scovato un «mi piace» che ho lasciato sotto la foto della promozione di Chiara, la collega dal sorriso facile. Per lei quel pollice alzato brillava come un brindisi clandestino, un bicchiere tintinnato dietro le quinte dell’intimità. Ho provato a spiegarle che l’intero reparto aveva fatto lo stesso, che era un applauso corale, rito aziendale più che messaggio in codice.
«L’azienda non dorme nel nostro letto» ha sibilato, sfiorando lo schermo con la punta delle dita come si tocca una ferita per sentirne il bruciore, poi ha chiuso Instagram con lo schiocco secco di un libro di sentenze. Quel gesto ha fatto risuonare nella stanza un clic piccolissimo e feroce: la serratura di una porta invisibile che si chiude da qualche parte fra il mio respiro e la sua paura.
Sono rimasto con il telefono fra le mani, luce spenta, come una torcia che avevo appena usato per illuminare un corridoio e che ora mi acceca dall’interno. Mi domando quanta vita si possa comprimere nello spazio di un «mi piace», quante ombre si possano proiettare da un gesto automatico del pollice. Il social era, un tempo, terrazza da cui guardare il mondo; ora somiglia a un mirino attraverso cui ogni mia sillaba viene calibrata, pesata, punita. Il suono di quella serratura, anche se immaginato, resta sospeso nell’aria: promessa che domani le chiavi saranno ancora più rare, e le porte ancora più spesse.
25 gennaio – ore 14:05
Pranzo con il team in un bistrot affollato: tavoli stretti, posate che tintinnano come campanelli di libertà. Il telefono vibra – prima volta. Lo lascio tremare nel taschino. Seconda vibrazione: lo stomaco si contrae. Terza, più lunga. Poi il messaggio: «Mandami una foto del tavolo». Non “divertiti”, non “come va?”. Solo prova documentale.
Alzo il cellulare come un drone di sorveglianza, inquadro piatti mezzi vuoti e facce ignare, scatto, invio. Sento una catena invisibile che attraversa il bistrot e tira verso la porta di casa. Luigi, accanto, ride: «Passato l’esame di ammissione?». Sorrido, ma il suono è sottile, carta velina che si lacera.
Mentre mastico focaccia, conto mentalmente quante volte ho trasformato pranzi in interrogatori a cielo aperto. Il sale sa di resa. Ogni foto inviata è un timbro sul passaporto della mia giornata, valido solo se approvato da lei. Il ronzio della macchina del caffè sembra sirena d’allarme; mi accorgo che mangio in fretta, non per fame, ma per non perdere il prossimo controllo.
5 febbraio – ore 23:30
Invito al compleanno di Luca: birre fredde, stecca di biliardo, risate che rimbalzano sui mattoni del pub come palloni impazziti. Le dita scivolano sulla tastiera—«Forse arrivo»—ma la parola forse pulsa in rosso, una sirena che annuncia la mia vigliaccheria. Cancello, chiudo l’app. Resto sospeso nello spazio bianco del messaggio non spedito, come un giocatore che rimane nello spogliatoio mentre il fischio d’inizio trafigge l’aria.
Mi osservo da fuori: sembianze di uomo adulto, cuore da clandestino. Misuro la gioia con il contachilometri della colpa: più alto il numero, più pesante il piede sul freno. Il desiderio di uscire brucia, ma la mente calcola pedaggi invisibili: quanti messaggi di check‑in? quante domande al ritorno? quante ore di gelo per un’ora di biliardo?
Luca manda una gif di torta che esplode in coriandoli digitali. Ricordo quando ridevo forte—un suono pieno, pancia che si scuote—ora scrollo e passo oltre, come un turista che guarda un paesaggio dietro vetro spesso. Il boato dei coriandoli non buca la campana di vetro che mi avvolge; la festa resta dietro lo schermo, e io resto qui, nell’eco muta di un «forse» che non ho mai avuto il coraggio di pronunciare ad alta voce.
8 febbraio – ore 07:00
Ho disattivato Facebook e Instagram. Un gesto che ostento come scelta spirituale – «sto facendo digital detox», annuncio con un sorriso di cartapesta – ma tu, caro diario, sai che tra la virtù e la paura scorre un confine sottile come la linea di un polso. Ogni volta che un’amica mi taggava in una foto di gruppo, il telefono si tramutava in riflettore da scena del crimine; bastava una faccina che ride per trascinarmi sotto l’interrogatorio al neon: –chi è lei ? –perché ride con te ? –da quanto vi scrivete ? Tre domande‑chiave che aprivano la serratura della diffidenza e richiudevano la mia libertà.
Così ho abbassato le tapparelle dei social pensando di spegnere la piazza. In realtà ho solo cambiato prigione. Il feed vuoto assomiglia a un corridoio ospedaliero alle tre di notte: pareti verde malato, luce pallida, l’odore di disinfettante che non copre il presagio di dolore. Nessun passo, nessuna voce, ma il rintocco metallico di un carrello ferrato potrebbe arrivare da un momento all’altro. Il silenzio digitale diventa sala d’attesa di una diagnosi che temo di conoscere già: isolamento per autosomministrazione.
Le notifiche tacciono, eppure sento il telefono pulsare in tasca come un arto fantasma. L’algoritmo non mi chiama più, ma la mia dipendenza sì. Sblocco lo schermo per abitudine, trovo solo il mio volto riflesso: doppio specchio che moltiplica la solitudine, davanti e dentro. Dietro quell’oscurità immagino le conversazioni che continuano senza di me, risate che non dovrò giustificare – e la mente si riempie di rumori immaginari più forti di qualsiasi notifica reale. Mi scopro archeologo di una vita che scorre altrove, cercatore di frammenti che non posso più raccogliere.
Ho cercato rifugio nel silenzio, ma il silenzio si è fatto specchio distorto: mi rimanda l’immagine di un uomo che vaga in un labirinto di vetri anti‑urto, corridoi che paiono aprirsi ma riconducono sempre alla stessa stanza vuota. Ogni volta che giro l’angolo trovo il mio riflesso – spalle curve, luce spenta nello sguardo – e capisco che la vera gabbia non era l’app ma la paura di dover spiegare, anche solo con un’emoji, la parte viva che ancora scalpita sotto la pelle, chiedendo il permesso di ridere senza processo.
20 febbraio – ore 02:29
Sogno il calcetto come si sogna un’amante mai incontrata: erba che sa di pioggia, muscoli che bruciano di libertà, respiri scomposti che diventano metronomo del cuore. Nel sogno dribblo un avversario, sento il boato degli amici, poi il pallone si dissolve e rimane solo il profumo del sudore buono.
Mi sveglio, la stanza è buia ma sento due pupille che mi attraversano. Alice è seduta sul bordo del letto, ginocchia al petto, il volto un enigma di lacrime asciutte. Dice che nel sonno continuavo a mormorare «Gigi, passamela». Gigi è il portiere della squadra, l’uomo‑muro che indossa guanti come armature. Glielo spiego piano; lei accenna un sorriso di cristallo che si frantuma subito in un singhiozzo. Mi stringe il polso, sussurra che si fida, ma lo fa con la voce di chi ha perso la strada di casa.
Eppure la colpa mi risale addosso come edera: colpevole di un tradimento onirico che non esiste, peggio, colpevole di un desiderio che non smetterà di bussare alle ossa finché avrò fiato per rincorrere quei dieci metri di libertà.
10 marzo – ore 22:50
Ho contato: sono centoottantadue giorni senza toccare un pallone. Sei mesi pieni più due giorni, l’equivalente di duecentosessantamila respiri trattenuti. Ogni alba timbra il cartellino della rinuncia, e il corpo, privo della sua corsa rituale, si è fatto terreno incolto dove cresce un’erba malinconica. La chiamo “gravidanza di rinuncia”: nel ventre dell’attesa è cresciuto un figlio che non sorriderà mai all’aria aperta. L’ho battezzato –Rimpianto-, e quando si muove lo sento scalciare contro le costole, gonfiare i polmoni, bussare al diaframma con i talloni impazienti.
Alice gira il sugo in cucina, parla di vacanze sul mare, di tende da sole da scegliere entro fine mese. Le sue parole sembrano galleggiare su una superficie d’acqua che non mi bagna. Annuisco, ma l’unico ritmo che mi governa è il battito irregolare di –Rimpianto-: un tamburo tribale che nessuna conversazione riesce a coprire. Ogni colpo dice «esisti, ma non vivi», e rimbomba nel torace come un richiamo a un rito che ho lasciato incompiuto sul prato sintetico.
Penso alla prima ecografia che non farò mai vedere a nessuno: il pallone che rotola libero nel corridoio della memoria, i tacchetti che disegnano mappe sul terreno e il coro degli amici che si alza come una benedizione. Intanto –Rimpianto– cresce, si fa pesante, occupa spazio: presto non ci sarà più stanza per altro, e temo il momento in cui non sentirò più il suo tamburo—segno che si è trasformato in pietra, un monolite che non distingue più tra battito e silenzio.
29 marzo – ore 00:03
Mi chiedono se sono felice. Sorrido, mostro la dentatura da animale addomesticato e snocciolo l’inventario delle certezze: un tetto che non perde, uno stipendio che arriva puntuale, una moglie che dice di amarmi così tanto da voler occupare ogni interstizio del mio tempo. A prima vista, sembra una cornucopia traboccante; basta inclinare lo sguardo per scoprire che sotto la frutta matura si annida la muffa. C’è una valuta che non entra nel conteggio, invisibile e indispensabile come l’ossigeno: lo spazio attorno al battito. Ho imparato che la libertà non è un extra da weekend, ma linfa di base; senza, il sangue si ispessisce, la vista si vela di nebbia fine, il pensiero inciampa su radici che non vede.
Nessuno scorge il cielo che mi manca. Mi osservano come si guarda un acquario di design: vetri limpidi, pesci che fluttuano placidi, impianto di luci a LED che simula l’alba. Non notano che l’acqua è povera di ossigeno e le branchie bruciano lentamente. Rispondo che ho tutto perché è più facile che spiegare la chimica segreta dell’aria assente, il vuoto barometrico che mi spreme i polmoni.
Ogni giorno divento sommozzatore della quotidianità: indosso la bombola di un sorriso di circostanza, mi abituo a respiri corti e misuro la profondità dei silenzi con il manometro della paura. Conto le inspirazioni come monete preziose, doso parole e passi per non sprecare quel poco che resta. Vivo a piccoli sorsi di vita, col contagocce: lo chiamano equilibrio, lo vendono come stabilità, ma in realtà è sopravvivenza sotto vetro—una vasca che si crepa un millimetro alla volta.
12 aprile – ore 19:27
Oggi ho indossato le scarpe da calcio: rigide, impolverate, profumavano di un passato fatto di erba sintetica e pioggia d’autunno. Le stringhe parevano vene secche che chiedevano sangue nuovo; le ho tirate piano e ho sentito la memoria flettersi dentro il cuoio. Ho fatto due passi nel corridoio: il suono non era semplice scricchiolio, era un’eco di ossa che reclamano diritto di correre, un timbro che apparteneva a campetti lontani, a luci giallastre che tagliavano la nebbia serale.
Mentre avanzavo, ogni tacchetto batteva sul parquet come se bussasse a una porta chiusa da troppo tempo. Ho chiuso gli occhi e ho visto le sagome degli amici, la rete che balla, un colpo di tacco che non è mai finito in rete ma ha fatto ridere tutti. Ho sentito il legamento interno farsi nostalgia, la caviglia ricordare un vecchio contrasto, il cuore allinearsi a quel ritmo di libertà.
Alice è comparsa sulla soglia del soggiorno; la luce del corridoio le scolpiva il viso come un interrogativo. Mi ha guardato come si guarda un oggetto fuori posto, un quadro storto su una parete appena imbiancata. «Stai partendo?» ha chiesto, senza irritazione, ma con un filo di smarrimento che tremava sotto la voce. Ho risposto dopo un respiro lungo: «Sto ricordando». Ho lasciato che la parola galleggiasse nell’aria tra noi, come polline al primo sole di primavera.
Lei è uscita senza dire altro, passi leggeri ma svelti, e ho percepito l’assenza di uno sguardo che avrei voluto trattenere. Le mie scarpe, però, hanno ricordato tutto: la storia scritta nei graffi del cuoio, i chilometri contati in tacche invisibili, la promessa di un campo che esiste ancora da qualche parte—forse fuori da questa casa, forse solo dietro le mie palpebre chiuse.
18 aprile – ore 00:27
Caro diario, stanotte ti confesso ciò che spesso lascio marcire dietro le labbra serrate: io la amo ancora. Malgrado il controllo che si infila nelle nostre giornate come sabbia nei cuscinetti di un ingranaggio, malgrado la gelosia che trasforma ogni mio gesto in prova d’appello, amo Alice con la tenacia di una radice che rompe l’asfalto pur di raggiungere la luce. Non voglio abbandonarla, non voglio sostituire il noi con un io zoppo di ricordi.
Ciò che sogno—ciò che imploro—è che lei riesca a vedere la gabbia che sta costruendo attorno a entrambi. La mia idea di libertà non è un lasciapassare per la fuga: è ossigeno condiviso, è spazio che permette al respiro di dilatarsi abbastanza da contenere due cuori. Vorrei stringerle le mani e mostrarle che il calcetto, il pranzo con i colleghi, il libro letto in silenzio sul balcone, persino quei dieci minuti di camminata senza notifiche non sono rivali ma alleati. Sono pozzi che riempiono la mia cisterna interiore, perché possa tornare a lei intero, non prosciugato.
Se solo potessi farle comprendere che non c’è minaccia in un campo spelacchiato né in una risata condivisa fuori dai suoi radar; che i miei amici non rubano amore ma lo rigenerano; che la libertà non sottrae affetto ma lo ossigena, forse la porta di questa cella si spalancherebbe. Voglio restare, voglio lottare per noi—ma non posso continuare a respirare con un polmone solo. Spero di trovare le parole giuste prima che il silenzio finisca di erodere ciò che siamo.
30 aprile – ore 01:59
Ho scritto «Esisto» su un foglio, grande, in stampatello: lettere spesse, nere, che sembravano voler bucare la carta per scavarsi un posto nel mondo. L’ho piegato in quattro e l’ho infilato nel cassetto delle posate, proprio lì dove scintillano le lame affilate che tagliano il pane e, a volte, i silenzi. Un manifesto sepolto tra oggetti quotidiani, un urlo che dorme accanto al metallo: ogni volta che Alice lo aprirà per cercare un coltello troverà anche quella parola, nuda come un polso offerto.
Non so se sia presagio o atto di coraggio—o forse un atto di disperazione vestito da coraggio. C’è la speranza che venga scoperto, certo, ma anche la paura che resti invisibile, come tutto ciò che sono diventato in questi mesi. Se lo leggerà, sarà costretta a fare i conti con un’esistenza che non ha più spazio; se resterà nascosto, saprò di aver gridato invano dentro una casa piena di mobili che assorbono richieste.
Ho scelto il cassetto dei coltelli perché lì dentro c’è il confine tra nutrimento e ferita: con la stessa lama si divide il cibo e si può lacerare la pelle. In quel confine abita la mia parola—«Esisto»—in bilico tra la vita che vorrei affettare a fette generose e la linea sottile della mia resistenza che potrebbe tagliarsi da un momento all’altro. Forse, quando lo troverà, capirà che non è solo un foglio: è il filo della mia voce su cui cammino senza rete.
14 maggio – ore 22:22
La squadra ha vinto il campionato senza di me. Foto, coppa, sorrisi impastati di birra e fatica: li guardo scorrere sullo schermo come se fossi seduto in ultima fila a un film muto che conosco a memoria ma a cui non partecipo più. Ho reagito con un’emoji di applauso nel gruppo, pollice esitante—un gesto di cortesia o forse l’ultimo segno di appartenenza?—poi ho spento il telefono come si chiude la bara di una stagione che non ho giocato.
La finestra era aperta: da qualche cortile arrivava il suono di un pallone che rimbalzava, secco, ostinato, come se insistesse a ricordarmi la vita che batte fuori da queste pareti. Quel toc‑toc‑toc era il bussare di un ospite senza invito. Ho chiuso l’infisso, ma il rimbalzo è rimasto inchiodato nel cranio—ritmo di tamburo che non accetta anestesia. È un eco che scandisce la domanda che non oso scrivere: si può vincere e, nello stesso istante, perdere tutto ciò che conta?
Seduto sul divano, ho immaginato i ragazzi tra le docce: l’acqua che scivola via portando con sé l’odore di erba tagliata, risate che esplodono contro le piastrelle, l’intonaco tremante sotto i cori. Lì dentro non c’è posto per la mia assenza; la vittoria cancella l’ombra come luce troppo forte. Mi rendo conto che il mondo procede anche se manco all’appello, e il pensiero mi lacera più di un contrasto duro. Forse la vera sconfitta non è il trofeo che manca sullo scaffale, ma il silenzio che resta nelle corde vocali quando non hai più coro con cui cantare.
Ho appoggiato l’orecchio al vetro freddo della finestra chiusa, sperando che il rumore del pallone svanisse. Invece è entrato sotto la pelle, ha sincronizzato il suo rimbalzo con il mio polso. Ogni battito mi ricorda che esisto in terra di mezzo: spettatore fuori campo, con la maglia appesa e la gola secca di urla mai emesse.
2 giugno – ore 09:10
Alice dorme ancora, il respiro lento che increspa appena il piumone. Il sole filtra dalla tapparella e disegna rettangoli d’oro sul pavimento: sembrano porte luminose che aspettano solo di essere oltrepassate. Le scarpe da calcio sono lì, ai miei piedi, con la tomaia che freme di ricordi; la borsa è leggera, contiene l’essenziale: maglia pulita, borraccia, un pezzetto di strada che voglio percorrere da solo.
Mi fermo un istante sulla soglia della camera: ascolto il ticchettio dell’orologio, il frigorifero che borbotta, la città che stira i muscoli dietro i vetri. Oggi non ho scuse, non ho bugie da confezionare. Ho contato troppe volte il prezzo del silenzio e so che il debito cresce ogni volta che resto. Il campetto è a dieci minuti, la partita alle dieci e trenta—un progetto minuscolo nell’economia dell’universo, eppure per me ha il peso specifico dell’ossigeno.
Le chiavi tintinnano nella mano, chiedono strada. Vorrà dire qualcosa questo metallo che vibra più forte del cuore? Ruoto lentamente nella serratura; il click sembra un proiettile sparato a salve, ma dentro di me echeggia come il fischio d’inizio. Forse Alice sentirà il rumore e si sveglierà, forse no. Ma so che l’esplosione del mio silenzio, se restassi, sarebbe più assordante di qualunque chiave.
Scendo le scale, ogni gradino un battito che rinasce. Sull’ultimo pianerottolo inspiro a fondo: l’aria profuma di cemento caldo e di libertà appena sfornata. Spingo la porta del palazzo—scricchiola, poi cede. Un raggio di luce morde la suola delle scarpe nuove di polvere. Oggi il mondo non mi chiede permesso, e io non lo chiedo a nessuno. Esco.
15 giugno – ore 04:43
La casa è immobile, un acquario in cui il silenzio galleggia come alghe morte e non produce più bolle di respiro. Ogni mobile sembra incartato in una stagnola d’ombra, come se la notte avesse voluto preservare tutto, tranne me. Ho appoggiato le scarpe da calcio accanto alla porta d’ingresso, ben allineate, pulite come per una partita che non si giocherà mai: piccole sentinelle che indicheranno a chi resta la direzione del mio desiderio.
Sul tavolo, accanto alla zuccheriera, c’è un foglio piegato in quattro: l’inchiostro è ancora umido, pulsa come una vena aperta. Dentro ho scritto: «Volevo solo giocare a calcetto». Parole che mi pesano più di un’enciclopedia; il resto lo affiderò al vuoto che le consegno, un vuoto che rimbalzerà fra queste pareti come un pallone senza più piede che lo calci.
Il lampione di fronte vibra di luce sporca, un ronzio che pare un amen elettrico. I miei passi si sono fermati prima di sudare di libertà: il cuore ha rallentato, si è seduto su una panchina interiore e ha smesso di fare warm‑up. Fuori la città ignora l’abdicazione di un respiro; dentro, ogni molecola d’aria mi ricorda che la partita più lunga si gioca a porte chiuse e io ho appena lasciato il campo.
Marco (il centrocampista fantasma)
Nota dell’autore
I “Frammenti di Diario” non intendono fornire diagnosi né soluzioni terapeutiche, e non si sostituiscono al lavoro di psicologi, counselor o terapeuti di coppia. Le situazioni narrate – così come i personaggi – sono interamente frutto della fantasia dell’autore.
Il loro unico scopo è aprire uno spazio di confronto nella community di Mentalità Amplificata: farci riflettere sui confini personali, sulla libertà emotiva e sulle sfumature del legame affettivo. Se la storia di Marco e Alice ha toccato corde sensibili, sentiti libero di condividere la tua prospettiva nei commenti: il valore nasce dal dialogo costruttivo e dal rispetto reciproco.
Cima Bue